Questa mattina, in Vico Lammatari, mi stavo recando a riordinare il nuovo ambulatorio conforme alle nuove direttive. Ho dovuto lasciare il mio, in Piazza Sanità, in quanto non aveva alcun requisito, ma in cui avevo curato una generazione e mezzo di umanità del posto. E’ come lasciare una persona cara. Un contenitore di ricordi, di sentimenti, di fiumi di parole, sorrisi, pianti, a volte anche solenni arrabbiature, lasciato li, incustodito tra quella polvere che sbuca un po’ dappertutto, quando si lascia un luogo caro, come se volesse subito coprire il tutto, sotterrarlo. E proprio nel vicolo accanto dei Lammatari, inamidatori di colletti e camicie del '700, la voce di un vecchio del posto, sbucato da un portone: -“ Dottore, che fine ha fatto il merlo che vi regalò, anni fa Vincenzino o barbiere? Voi forse non sapete che a quel merlo imparai io a parlare”.
E vero, si era persa nel tempo la storia del merlo parlante di Vincenzino. Qualche appunto sui miei diari dei fatti incontrati negli anni, l’ho sempre lasciato, per la mia grafomania, ma del merlo non avevo più nessuna traccia per riprenderlo nel bagaglio della memoria.
Vincenzino, o barbiere, detto però tra gli intimi “Cacaglia” abitava in cima alla Penninata S.Gennaro con una numerosa famiglia, composta da una moglie abbondante, Terè “a chiatton” che aveva generato una miriade di figli. Vivevano tutti dentro un basso, in più e svariati strati, ma vivevano. Fuori, all’entrata, appesa ad una cordicella una gabbia con un merlo. Mi aveva fatto fermare più volte il suo canto, un gioco di modulazioni sonore ricche, tortuose e incantanti. Vincenzino, affacciato al basso, scorgeva la mia meraviglia e aggiungeva commenti in favore del suo merlo: -“Dovreste sentirlo, quando parla, è una magnificenza, na persona umana, credetemi.-“
Ma io non ebbi mai questo riscontro, durante le mie visite a casa sua.
“-Sapete, è timido, non vi conosce. Deve prima abituarsi alla persona, scusatemi se non ve lo regalo, ma è uno di famiglia”-.
Il cuore napoletano lo si riscontra in queste cose. Guai nella mia vita di medico, dire: ” Come è bello quel vaso, quel crocifisso o altro”- La persona si sentiva in dovere di incartarvelo in un foglio di giornale e di imporvi di accettarlo come regalo. Confesso che qualche volta ne ho approfittato!
Passò del tempo, non ricordo quanto, forse anni e un giorno arrivò Vincenzino Cacaglia in ambulatorio. Il volto serio, preoccupato.
“- Dotto, ho problemi giuridici con il merlo, ha insultato Peppino o’drink che se l’è presa a male e mi ha sporto denuncia”-.
Ricordo che la cosa mi sembrò del tutto improbabile, ma talmente fantasiosa, uscita da una novella di Calvino, che gli credetti.
-“ Me lo potreste tenere dottò? Ve lo regalerei con enorme piacere, conoscendovi.-“
E il giorno dopo tornai a casa con questa gabbia di grandezza considerevole e con il merlo che fisso sul trespolo mi guardava, muto. Lo posizionai sul balcone della camera da letto, che dava sul cortile. Il merlo restò per parecchi giorni in un mutismo, quasi patologico. Consultazioni telefoniche con Vincenzino, brevi e ansiose che mi rassicurava con: -“E’ timido, il merlo mio, aspettate e vedrete”
Passarono altri giorni di dubbi, anche perché un merlo non è un uccellino, e sporca quasi come una gallina. Una mattina, era un’alba di primavera; quella luce che ti entra in camera man mano nel silenzio della città che è ancora assopita. Una voce umana chiara oltre la finestra, una voce che scuoteva il cortile dal suo sonno, una voce sorda, intensa, ammicchevole,… sì..del tutto umana:
- “ RICCHIO’…….RICCHIO’……RICCHIO’…….RICCHIO’……….”
Lucio Paolo Raineri